Social network: come usarli a vantaggio della comunicazione aziendale?

La potenzialità divulgativa dei social network li ha resi un luogo privilegiato per l’informazione: anche grazie a loro, la comunicazione e la propagazione delle notizie è diventata istantanea. Ma se questa connessione perenne sul mondo comporta grandi benefici, la libertà di accesso e gestione dell’informazione genera anche grossi rischi. Un esempio è il fenomeno delle fake news. Per questo motivo è essenziale controllare le fonti e affidarsi solo a quelle attendibili. A oggi, i principali social per il B2B sono Meta (Facebook e Instagram), TikTok, Pinterest, Twitter e LinkedIn. Secondo una ricerca di Dataportal, ripresa da un’analisi Cerved, la media mondiale di permanenza quotidiana su tali piattaforme per singolo utente è di 2,27 ore. È intuibile quanto sia importante per un’azienda il giusto presidio di questi luoghi digitali.

Sfruttare i canali Corporate con la giusta strategia commerciale

Essere presenti sui principali canali di comunicazione social non è più solo consigliato, è divenuto un imperativo. Non esserci, vuol dire non esistere, o quasi. Allo stesso modo, è categorico avere una strategia ben precisa, perché avere canali Corporate non basta. Gli utenti infatti sono sempre più smaliziati, e utilizzano questi mezzi per ottenere informazioni sensibili anche ai fini dell’acquisto. Da qui nasce la necessità di coinvolgere nella comunicazione ai propri prospect, partner autorevoli. Essere citati dagli attori che hanno community verticali, e sono riconosciuti come affidabili, è il punto di partenza per far parlare di sé nel modo corretto.

Viralità e storytelling

La viralità di un contenuto spesso è un processo incontrollabile che dipende da numerosi fattori. Però, con i giusti accorgimenti, è possibile produrre contenuti che hanno buone probabilità di generare passaparola. La prima domanda da porsi per raggiungere quest’obiettivo è: chi posta questo contenuto? Se a farlo è una pagina o un personaggio noto, con una community ampia e attiva, il nostro contenuto avrà molte più chance di diventare virale. Far parlare di sé in modo naturale, sfruttando informazioni dal taglio informativo ed editoriale legate all’azienda, è uno strumento eccellente per acquisire visibilità, autorevolezza e passaparola online. La seconda considerazione da fare è relativa al contenuto in sé: è interessante? Cattura l’attenzione di un utente? Ha probabilità di essere condiviso? Se le risposte sono affermative, siamo sulla strada corretta.

Non sottovalutare il target

Il terzo elemento da non sottovalutare è il pubblico. Un target generalista, per quanto ampio, sarà potenzialmente meno reattivo di un piccolo pubblico mirato. I social network conservano un numero di informazioni molto ampio su ciascun utente: luogo di nascita, luogo di residenza, sesso, età, interessi, posizione lavorativa e tanto altro. Sarebbe da ingenui pensare che chi utilizza questi strumenti a scopi professionali non utilizzi questi dati per indirizzare meglio le proprie comunicazioni. Alla luce di quanto detto, va da sé che avvalersi dell’ausilio di partner specializzati aiuti nell’individuazione della strada corretta da intraprendere.

Lavoro ad alta quota e infortuni

Lavorare ad alta quota significa automaticamente essere esposti ad una serie di pericoli, i quali possono anche avere conseguenze serie per la salute.

Chi lavora ad una certa altezza infatti, sa che una eventuale caduta dall’alto verso il basso potrebbe avere delle ripercussioni non di lieve conto sulla propria salute, e questa è una eventualità da scongiurare.

Spesso purtroppo è proprio l’abitudine a lavorare ad alta quota che comporta nei lavoratori un certo rilassamento, il quale fa abbassare inconsciamente il livello di guardia ed espone così maggiormente a rischio i lavoratori.

Proprio per evitare situazioni di questo tipo, il Decreto Legislativo 81/08 ha dettato quelle che sono le linee guida da rispettare per far sì che i lavoratori possano dedicarsi alle proprie mansioni senza dover temere nulla, anche se lavorano ad una altezza da suolo non indifferente.

L’attrezzatura di sicurezza

In particolar modo la normativa vigente individua in 2 metri di altezza la soglia massima oltre la quale è necessario predisporre tutta una serie di accortezze per poter lavorare in sicurezza.

Esiste infatti della apposita attrezzatura di sicurezza che può aiutare qualsiasi lavoratore nel momento in cui si presenta una caduta.

Le classiche imbracature ad esempio, arrestano immediatamente l’eventuale caduta verso il basso impedendo così che possa esservi un contatto con il suolo.

Solitamente tali imbracature sono collegate ad una linea vita da tetto o altro punto fisso mediante delle apposite funi.

Esistono inoltre determinati sistemi di frizione che hanno l’importante compito di ripartire l’impatto dovuto alla frenata, e dunque distribuire le forze in maniera tale che queste non scarichino interamente sul corpo del lavoratore ma che al contrario vengano distribuite.

Un trend finalmente in calo

Quello degli infortuni sul lavoro dovuti a cadute dall’alto è un trend fortunatamente in diminuzione.

Rispetto a 20 anni fa infatti, il numero degli incidenti è diminuito praticamente del 70%. Ciò significa che la strada intrapresa è quella giusta e che la direzione da seguire è proprio quella che porta a tutta una serie di dispositivi di protezione individuale e collettiva che possono fare la differenza al momento del bisogno.

Paradossalmente, sebbene quello del lavoro ad alta quota sia uno dei lavori più pericolosi che possano esserci in un cantiere, grazie a soluzioni di questo tipo è diventato in realtà tra i più sicuri.

Basta infatti visionare le statistiche per rendersi conto che il numero di incidenti avvenuti in concomitanza di lavori ad alta quota è diminuito drasticamente nel corso degli ultimi anni, al punto tale che lavorare ad una certa altezza dal suolo sia diventato più sicuro rispetto altre tipologie di lavori.

L’importanza di ascoltare i lavoratori

Una delle cose che i datori di lavoro ed i responsabili della sicurezza in cantiere devono sempre tenere in considerazione è l’opinione dei lavoratori.

Sono loro infatti a dover indossare tali dispositivi di protezione e dunque essi sanno meglio di chiunque altro quali di questi siano più o meno comodi da indossare o quali dispositivi vadano a limitare la libertà di movimento.

Bisogna infatti tutelare i lavoratori dal punto di vista della sicurezza, non facendo però in modo che il loro lavoro debba diventare più difficile o scomodo.

Diventa per questo importante individuare quei dispositivi che consentono di ottenere il giusto livello di sicurezza e un livello di comfort ottimale.

Questo è il risultato al quale bisogna ambire, così da riuscire ad avere sempre le migliori performance possibili da parte dei lavoratori, con la certezza che la loro incolumità sia sempre salvaguardata e dunque non ci sia alcun tipo di pericolo durante lo svolgimento delle proprie mansioni quotidiane in cantiere.

Crisi energetica: quali rischi per la crescita delle imprese lombarde?

Lo confermano le imprese lombarde, che già nel secondo trimestre dell’anno segnalano rincari compresi tra il 40% e il 50% per gas ed elettricità nella maggior parte dei settori. Dalle imprese lombarde arrivano quindi segnali di preoccupazione per la tenuta della fase di crescita innescata nel 2022. Questo, nonostante il secondo trimestre dell’anno abbia ancora registrato andamenti positivi. A intercettare la preoccupazione delle imprese è il focus di approfondimento di Unioncamere Lombardia su approvvigionamento energetico e accesso al credito per i principali settori economici lombardi.
La tensione sui rifornimenti energetici già preannunciata a fine 2021 è stata infatti esacerbata dalle conseguenze del conflitto in Ucraina, con forti rincari per tutti i prodotti, soprattutto il gas.

L’industria manifatturiera è la più penalizzata

La situazione è più grave nell’industria manifatturiera, dove il costo del gas è sostanzialmente raddoppiato (+98,9%), mentre quello dell’elettricità cresce del +73,5%. Il comparto industriale è infatti penalizzato da settori fortemente energivori, per i quali i rincari hanno assunto dimensioni eccezionali. La siderurgia registra a luglio variazioni di costo pari al +143% per il gas e +107% per l’elettricità, ma anche il tessile (+157% e +90%) e gli alimentari (+142% e +85%) mostrano incrementi molto rilevanti. Nel terziario si evidenziano in generale rincari inferiori, ma sempre ben al di sopra dell’inflazione, a eccezione di alberghi e ristoranti, dove i prezzi di gas ed elettricità sono aumentati del +76% sua base annua.

Autonomia energetica: non tutti i settori sono maturi

Per quanto riguarda l’autosufficienza, l’industria si rivela il settore più maturo nel percorso verso l’autonomia energetica. Un terzo delle imprese industriali (34%) è in grado di produrre almeno in parte l’energia di cui deve approvvigionarsi per le proprie attività, mentre negli altri settori la presenza di impianti è nettamente inferiore (21% per il commercio al dettaglio, 14% per l’artigianato, 12% per i servizi). L’impennata dei costi energetici si innesta su una situazione economica resa ulteriormente critica dall’aumento dei tassi di interesse, innescato dalle politiche restrittive messe in atto dalle banche centrali per contrastare l’inflazione.

Accesso al credito: peggiorano le condizioni applicate 

Dal lato dell’accesso al credito, le imprese segnalano in particolare una crescita delle spese connesse alla richiesta di prestiti. In tutti i settori circa il 50% del campione registra un peggioramento per le condizioni applicate, tassi sui prestiti e costi complessivi del finanziamento. Occorre ricordare però come negli ultimi anni le imprese lombarde abbiano intrapreso un percorso di consolidamento dal punto di vista finanziario, che consente agli imprenditori di mantenere ancora una fiducia elevata nella propria capacità di far fronte al debito. La percentuale di intervistati che esprime preoccupazione su questo aspetto rimane minoritaria, con l’artigianato che registra i valori più critici (livello di preoccupazione pari a 33%), seguito dai servizi (25%) e dal commercio al dettaglio (25%), mentre le imprese industriali si confermano più solide (21%).

Transizione ecologica: un impatto sul 72% delle aziende

Lo studio del REPAiR Lab (Responsible, Patience and Reliable Finance Lab),  il laboratorio di SDA Bocconi e CRIF sulla finanza responsabile e sostenibile, evidenzia che oltre il 72% delle aziende avrà un impatto nella catena industriale dovuto al percorso di transizione ecologica.
L’emergenza climatica è infatti sotto gli occhi di tutti, e in questo contesto un ruolo centrale nel contenimento delle emissioni è svolto anche dalle imprese, che si trovano a dover fronteggiare un rischio di transizione ecologica che può consistere in perdite di operatività, soprattutto per le aziende attive nei settori chimico e del cemento. Lo studio individua quindi i passaggi chiave che le imprese devono seguire per governare al meglio il processo di decarbonizzazione e minimizzare i rischi della transizione verde.

I settori ‘energivori’ e il rischio nel lungo periodo

Per stimare gli impatti della transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio sono state analizzate oltre 5 milioni di imprese italiane sulla base dell’indicatore di rischio di transizione ecologica sviluppato da CRIF. A livello di dimensioni, le aziende che subiranno un impatto maggiore sono tendenzialmente più grandi della media. Inoltre, focalizzando l’analisi sul consumo energetico, emerge una relazione tra i settori ‘energivori’, con maggior consumo di gas metano, e il rischio di transizione nel lungo periodo.

Maggiore efficienza energetica e situazione finanziaria

“Le Pmi e le aziende corporate che investono in maniera strategica nella sostenibilità possono ridurre i loro consumi del 10-30% all’anno, senza diminuire il livello di servizio e la qualità delle operazioni aziendali. Con una maggiore efficienza dal punto di vista energetico le imprese possono migliorare la propria situazione finanziaria ma anche ridurre le emissioni di gas serra – spiega Marco Macellari, Director, Head of Risk Management, Management Consulting di CRIF -. È fondamentale, inoltre, che le iniziative di transizione ecologica si estendano dalla singola impresa all’intera supply chain. Basti pensare che fino al 90% dell’impatto ambientale di un’impresa è determinato proprio dai processi produttivi”, 

Strategia, gestione dei rischi, accesso ai capitali e metriche di misurazione

Il lavoro delle imprese deve concentrarsi in maniera integrata su quattro aspetti: strategia, gestione dei rischi, accesso ai capitali e metriche di misurazione. Per quanto riguarda la strategia, è prioritario che le imprese integrino gli obiettivi di decarbonizzazione e sostenibilità con modalità coerenti col piano industriale. È poi fondamentale che gli aspetti legati al cambiamento climatico siano integrati nelle strategie di risk management: le aziende più virtuose dal punto della sostenibilità diventeranno più attrattive e resilienti agli occhi di mercati e investitori. Ma per gestire la transizione, “serviranno ingenti fonti di capitali, anche sotto forma di obbligazioni o equity, che possano supportare le imprese nella gestione dei rischi ambientali”, sottolineano i ricercatori del REPAiR Lab. Quanto alle metriche, sarà prioritario che le imprese si uniformino agli standard europei e internazionali di misurazione, affinché la valutazione delle proprie attività e la loro comunicazione sia più omogenea e aperta possibile.

Cambiamento climatico, cosa ne pensano gli italiani?

La preoccupazione è alta, non solo per l’immediato ma anche per gli anni a venire. E’ la fotografia del sentiment degli italiani – e non solo – rispetto al cambiamento climatico. Un fenomeno in atto che sta già avendo effetti visibili a tutti. Per esplorare quale sia il pensiero dei nostri connazionali e dei cittadini di altri 34 paesi del mondo, Ipsos ha condotto una ricerca internazionale in collaborazione con il World Economic Forum che potesse illustrare preoccupazioni e speranze in merito al climate change.

Oltre la metà degli intervistati è già pessimista

Oltre la metà degli intervistati (56%) ritiene che i gravi effetti del cambiamento climatico siano già visibili nella propria zona. Inoltre, a causa del cambiamento climatico, più di sette rispondenti su dieci (71%) si aspettano gravi conseguenze nella propria aerea nei prossimi 10 anni e un terzo (35%) prevede lo sfollamento nei prossimi 25 anni. I cittadini italiani mostrano una preoccupazione molto più elevata, rispetto alla media internazionale, in merito alla gravità degli effetti del cambiamento climatico sia nel presente, sia guardando al futuro. Quali sono le principali opinioni? La percentuale di intervistati che descrive l’effetto che il cambiamento climatico ha avuto finora nell’area in cui vivono con livelli molto o abbastanza gravi varia dal 25% in Svezia al 75% in Messico, con una media del 56% in tutti i 34 Paesi. A livello internazionale, la maggioranza in 22 dei 34 Paesi esaminati riferisce che la loro area è già stata gravemente colpita dal cambiamento climatico, inclusi 9 Paesi in cui si superano i due terzi: Messico, Ungheria, Turchia, Colombia, Spagna, Italia, India, Cile e Francia. Nello specifico, in Italia sono sette cittadini su dieci a ritenere che il cambiamento climatico ha già avuto effetti gravi nel luogo in cui vivono.

Cosa accadrà nel prossimo decennio?

La preoccupazione di essere gravemente colpiti dai cambiamenti climatici nel prossimo decennio è espressa dalla maggioranza degli intervistati in ogni Paese esaminato: dal 52% in Malesia a oltre l’80% in Portogallo, Messico, Ungheria, Turchia, Cile, Corea del Sud, Spagna e Italia.
Il timore per le conseguenze negative future del cambiamento climatico è maggiore di 15 punti rispetto a quanti affermano che gli effetti gravi siano giù visibili. Infatti, in media a livello internazionale, il 71% si aspetta che il cambiamento climatico avrà un impatto molto o abbastanza grave nella propria area nei prossimi 10 anni. La percentuale aumenta notevolmente in Italia, dove l’81% dei cittadini prevede che la propria area sarà gravemente colpita dai cambiamenti climatici nel prossimo decennio. 

Come smascherare potenziali frodi online?

Visa ha compilato il Fraudolese, il vocabolario delle frodi che svela le strategie comunicative dei truffatori da cui tenersi in guardia per navigare e fare acquisti online in tutta sicurezza. E ha stilato dieci suggerimenti per smascherare potenziali frodi. Il primo è controllare l’ortografia dei messaggi. Le incongruenze nel linguaggio, infatti, come gli errori di grammatica, la disposizione delle parole o le differenze tra il nome del mittente e il link all’url fornito, potrebbero indicare che si tratta di una frode. Se si riceve un messaggio inaspettato da un’azienda o da un individuo, è sempre bene fare attenzione a questi errori.

Diffidare delle richieste urgenti

Diffidare poi delle richieste urgenti. Un linguaggio che incoraggia a intraprendere un’azione urgente spesso è una tattica utilizzata nelle comunicazioni fraudolente. Diffidare quindi di espressioni come ‘clicca (…) qui sotto’, o ‘entro 48 ore’, e non cliccare sui link per evitare di compromettere i dati personali. Attenzione anche alle richieste sospette: i truffatori spesso usano come esca un problema, come chiedere di riorganizzare una consegna, o fanno un’offerta allettante, come la vincita di un premio. Qualora non si abbia evidenza del problema che viene chiesto di risolvere o dell’offerta proposta, è probabile si tratti di frode. Inoltre, verificare che il mittente sia effettivamente chi dice di essere: i truffatori spesso si impegnano per convincere della loro credibilità. Può essere difficile distinguerle, quindi se non si è sicuri, meglio verificare.

Verificare il messaggio con una persona di fiducia

Può sembrare ovvio, ma se non si è sicuri della legittimità di un messaggio, può essere utile verificare il messaggio con una persona di fiducia, che potrebbe avere ricevuto un messaggio simile. Condividere la propria esperienza potrebbe inoltre evitare che altri ne siano vittima. Ma è importante controllare che i siti scelti per gli acquisti online siano sicuri. Trovare il sito web giusto significa quindi verificare che nella barra degli indirizzi sia presente l’icona del ‘lucchetto’ e che l’indirizzo inizi con HTTPS: la ‘S’ offre maggiori garanzie di sicurezza. Controllare poi il sito web e le recensioni del venditore, informandosi anche sui social media o l’azienda presso cui si sta per acquistare, e dare un’occhiata alle recensioni.

Usare i token e i servizi one-click

E attenzione alle truffe di phishing tramite e-mail o telefonate non richieste e sospette. Potrebbero tentare di rubare informazioni personali come numero di conto, nome utente e password. In caso di dubbio, non cliccare sui link o scaricare file. sQuando si aggiunge la carta al proprio smartphone, o la si collega all’app di alcuni esercenti, i dati vengono spesso sostituiti da un ‘token’ digitale: ciò significa che i dati della carta non vengono memorizzati. Usare perciò sempre i token e i servizi one-click per pagare in modo facile e sicuro. Utilizzare poi un modo sicuro, rapido e semplice per identificarsi. Qualora sia possibile, è bene impostare metodi come le impronte digitali o il riconoscimento facciale sugli smartphone e all’interno delle app bancarie.

Le donne e i giovani sono sempre più propensi a donare

Sono le donne e le generazioni più giovani a donare di più: l’84% di loro dichiara infatti di aver fatto almeno una donazione nel corso del 2021. Secondo i risultati dell’ottava edizione dello studio Donare 3.0, sviluppato da BVA Doxa per conto di PayPal e Rete del Dono, si evidenzia in particolare il trend positivo di Millennials e Gen Z, che nel 2021 confermano il balzo in avanti avvenuto nel 2020, che li aveva visti crescere dal 79% all’84%. Non solo, cresce anche la percentuale di Millennials (61%) che dona a più associazioni, mentre i più adulti prediligono donare a una sola associazione. Il futuro per le donazioni appare quindi positivo: il 25% dei Millennials ha affermato di voler donare di più in futuro, seguiti da quanto afferma il 18% della Generazione X.

La salute prima di tutto

‘Salute e ricerca scientifica’ (54%) conferma il primato come l’area più scelta dai donatori, mentre cresce l’area ‘emergenza e protezione civile’ (35%), seguita da ‘tutela dell’ambiente e degli animali’ (28%) e ‘assistenza sociale’ (24%). Cresce inoltre la sensibilità verso la ‘tutela dei diritti e della pace’ (15%). Quanto a tipologie di donazione, crowdfunding (72%), donazioni ad associazioni (64%) e regali solidali (21%) proseguono il trend positivo iniziato nel 2020. Prosegue poi la crescita costante della donazione online (35%), mentre il contante, che rifletteva un calo durante il 2020, recupera qualche punto (37%). Osservando esclusivamente le donazioni verso le associazioni (escludendo il regalo solidale), quelle effettuate online (35%) superano quelle in denaro contante (27%). Inoltre, donare nel momento di un acquisto è una pratica che sta destando interesse: per il 37% ‘fare del bene mentre si fanno acquisti è un’ottima idea’, scelta gradita soprattutto alle donne e giovani under 24.

L’impatto del covid e il conflitto in Ucraina

Nel 2021 un donatore su tre ha cambiato associazione di riferimento per le proprie donazioni. Al 37% degli intervistati è capitato di non donare a un’associazione non-profit, cui erano soliti donare, a causa della pandemia. Ma le drammatiche vicende relative al conflitto in corso in Ucraina hanno suscitato la reazione positiva degli italiani. Il 60% del campione intervistato ha affermato di aver effettuato una donazione a favore della popolazione ucraina. Soprattutto vestiti e denaro (30%), seguiti da cibo (24%), medicinali (18%) e giocattoli (13%).

“Il digitale sta giocando un ruolo chiave”

“Il mondo delle donazioni, a causa della Pandemia COVID 19, ha dovuto rivoluzionare il proprio modo di relazionarsi con i propri donatori e sostenitori – spiega Antonio Filoni, partner e Head of Digital di BVA DOXA -. Siamo ancora in una fase di passaggio dove il digitale sta giocando un ruolo chiave: non è solo infatti la modalità di pagamento che si digitalizza, ma diventa virtuale il contatto, il dialogo e la relazione, più che mai importante e centrale per creare legame che il donatore cerca nell’esprimere con un gesto il proprio desiderio di fare del bene”.

Commissione Europea, l’Italia sale di due posizioni nell’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società 2022

Passi avanti per l’Italia digitale, a quanto evidenzia l’ultimo Indice di digitalizzazione dell’economia e della società 2022 (DESI) appena pubblicato dalla Commissione Europea. Il nostro Paese ora si colloca al 18esimo posto fra i 27 Stati membri, dal 20esimo dell’edizione precedente. Due anni fa era 25esima. Nonostante i progressi, anche sulla connettività, “la trasformazione digitale” in Italia “sconta ancora varie carenze cui è necessario porre rimedio”, evidenzia Bruxelles, indicando che “oltre la metà dei cittadini italiani non dispone di competenze digitali di base” e “la percentuale degli specialisti digitali nella forza lavoro è inferiore alla media dell’Ue”. Nella sua analisi, la Commissione europea sottolinea che “l’Italia sta guadagnando terreno e, se si considerano i progressi del suo punteggio Desi negli ultimi cinque anni, sta avanzando a ritmi molto sostenuti”. Puntando anche sul buon uso dei fondi del Pnrr, riferisce Ansa, il nostro Paese “potrebbe migliorare ulteriormente le proprie prestazioni”, un’evoluzione “cruciale” per “consentire all’intera Ue di conseguire gli obiettivi del decennio digitale per il 2030”. Per avanzare, osserva tuttavia l’esecutivo comunitario, “è assolutamente necessario un deciso cambio di passo nella preparazione dell’Italia in materia di competenze digitali” e specialisti Tic. In fatto di connettività, “si sono registrati progressi nella diffusione della banda larga e nella realizzazione della rete”, ma “rimangono alcune carenze nella copertura delle reti ad altissima capacità (compresa la fibra), che è ancora molto indietro rispetto alla media Ue, nonché rispetto all’obiettivo del decennio digitale di una copertura universale entro il 2030”. 

Gli obiettivi per l’Europa

Durante la pandemia di Covid-19, gli Stati membri hanno compiuto progressi nei loro sforzi di digitalizzazione ma stentano ancora a colmare le lacune in termini di competenze digitali, digitalizzazione delle PMI e diffusione di reti 5G avanzate. Il dispositivo per la ripresa e la resilienza, con circa 127 miliardi di euro destinati a riforme e investimenti nel settore digitale, offre un’opportunità senza precedenti, che l’UE e gli Stati membri non possono lasciarsi sfuggire, per accelerare la trasformazione digitale. I risultati mostrano che, sebbene la maggior parte degli Stati membri stia avanzando nella trasformazione digitale, le imprese stentano tuttora ad adottare tecnologie digitali fondamentali, come l’intelligenza artificiale (IA) e i big data. Occorre intensificare gli sforzi per garantire la piena diffusione dell’infrastruttura di connettività (in particolare il 5G) necessaria per servizi e applicazioni altamente innovativi. Le competenze digitali sono un altro settore importante in cui gli Stati membri devono compiere progressi più ampi.

I paesi più digitalizzati 

Il DESI rivela che Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia restano all’avanguardia dell’UE. Ma anche questi paesi presentano lacune in settori chiave: la diffusione di tecnologie digitali avanzate quali l’IA e i big data, che rimane al di sotto del 30% e molto lontana dall’obiettivo del decennio digitale del 75% per il 2030; la diffusa carenza di personale qualificato, che rallenta il progresso generale e porta all’esclusione digitale. Sussiste una tendenza generale positiva alla convergenza: il livello di digitalizzazione dell’UE continua a migliorare e gli Stati membri partiti dai livelli più bassi crescono a un ritmo più rapido recuperando terreno a poco a poco. E la rimonta dell’Italia ne è una dimostrazione.

Università italiane: le classifiche del Censis 2022/2023

Ogni anno il Censis elabora la Classifica delle Università italiane: si tratta di un’analisi del sistema universitario basata sulla valutazione degli atenei relativamente a strutture disponibili, servizi erogati, borse di studio e altri interventi in favore degli studenti, livello di internazionalizzazione, comunicazione e servizi digitali, e occupabilità. Per supportare l’orientamento di migliaia di studenti pronti a intraprendere la carriera universitaria, l’edizione 2002/2023 del ranking quest’anno comprende 69 graduatorie a partire da 924 variabili considerate, che possono appunto aiutare i giovani e le famiglie a individuare con consapevolezza il percorso di formazione post-diploma.

Bologna ancora in testa ai mega atenei

La prima posizione tra i mega atenei statali (oltre 40.000 iscritti) è occupata anche quest’anno dall’Università di Bologna, con un punteggio complessivo di 89,8, seguita dall’Università di Padova e La Sapienza di Roma (rispettivamente 88,0 e 86,5 punti), dall’Università di Pisa (85,2), l’Università di Firenze (84,3), l’Università Statale di Milano (82,7), l’Università di Palermo, ex aequo con l’Università di Torino (80,8), l’Università di Bari (80,2) e la Federico II di Napoli (72,3). La posizione di vertice tra i grandi atenei statali (da 20.000 a 40.000 iscritti) è occupata dall’Università di Pavia (91,0 punti), seguita dall’Università di Perugia, (90,8), della Calabria e di Venezia Ca’ Foscari (90,3 e 88,7), l’Università di Milano Bicocca e l’Università di Cagliari (88,5 e 87,8). Chiudono la classifica l’Università di Roma Tre (78,8), l’Università di Catania (78,3) e di Messina (75,8).

Siena supera Trento nei medi atenei statali

Apre la classifica dei medi atenei statali (da 10.000 a 20.000 iscritti) l’Università di Siena (96,7), che guadagna la prima posizione detenuta lo scorso anno dall’Università di Trento (94,8), scesa in terza posizione a causa della perdita di 10 punti nell’indicatore relativo all’occupabilità, e preceduta dall’Università di Sassari (96,0), che guadagna una posizione grazie all’incremento di 15 punti nell’indicatore relativo a borse di studio e altri servizi in favore degli studenti. Stabile in quarta posizione l’Università di Trieste (94,5), che precede l’Università di Udine (94,0), l’Università Politecnica delle Marche (91,2), l’Università di Brescia (88,5), l’Università del Salento (87,0), l’Università di Urbino Carlo Bo (84,8), l’Università dell’Insubria (83,3). Chiude il ranking l’Università di Napoli Parthenope (77,3).

Il top dei piccoli atenei statali, non statali e i politecnici

Nella classifica dei piccoli atenei statali (fino a 10.000 iscritti) l’Università di Camerino occupa la prima posizione (99,5), seguita dall’Università di Macerata (87,2), e l’Università Mediterranea di Reggio Calabria (86,5). La classifica dei politecnici è guidata anche quest’anno dal Politecnico di Milano (97,0), seguito dal Politecnico di Torino (91,5), ora in seconda posizione, occupata lo scorso anno dallo Iuav di Venezia (90,5). Chiude la classifica il Politenico di Bari (87,7). Tra i grandi atenei non statali (oltre 10.000 iscritti) in prima posizione anche quest’anno l’Università Bocconi (92,6 punti) e in seconda l’Università Cattolica (76,2), tra i medi (da 5.000 a 10.000 iscritti) si colloca in testa la Luiss (93,2), seguita dallo Iulm (80,2), mentre tra i piccoli (fino a 5.000 iscritti) è prima la Libera Università di Bolzano (94,6), seguita dall’Università di Roma Europea (86,8).

Tecnologie digitali: i professionisti italiani investono 1,76 miliardi di euro

Lo confermano i risultati della ricerca dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano: nel corso del 2021 avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro hanno investito complessivamente 1,76 miliardi di euro in tecnologie digitali, il +3,8% rispetto al 2020. Un dato positivo, nonostante per la prima volta in dieci anni l’incremento percentuale sia inferiore a quello evidenziato dalle aziende (+4,1%). Inoltre, solo i grandi studi, prevalentemente del settore legale, hanno elaborato una strategia in grado di innovare il business attraverso le tecnologie più evolute, mentre la maggior parte degli studi professionali presenta modelli di business statici, che hanno indirizzato gli investimenti in digitale verso le esigenze contingenti, come l’adozione dello smart working.

La spesa aumenta con la dimensione degli studi professionali 

Una forte differenza si evidenzia infatti considerando le dimensioni degli studi professionali. Tra le micro realtà, l’11% non ha investito nulla in ICT e solo l’1% ha destinato più di 10mila euro, mentre tra gli studi piccoli, medi e grandi solo il 3% non ha investito in tecnologia e il 22% investe più di 10mila euro. Tra i diversi settori, gli studi multi professionali sono quelli che spendono di più per il digitale (in media 25.050 euro), in linea con il 2020. Gli avvocati hanno visto un aumento degli investimenti del +2,9% (8.950 euro medi), i consulenti del lavoro del +2,5 (10.350 euro), mentre i commercialisti hanno visto scendere gli investimenti in ICT del -5,4% (11.450 euro).

Per il rilancio serve collaborazione o aggregazione

A essere più penalizzati dalla pandemia sono soprattutto gli avvocati: solo per uno studio legale su due il 2021 è stato più favorevole del 2020. Al contrario, i provvedimenti del governo a sostegno delle attività economiche hanno incrementato l’attività di commercialisti, consulenti del lavoro e studi multidisciplinari, che nel 60% dei casi, hanno visto aumentare la redditività rispetto al 2020.
Per rilanciare gli studi in termini economici e finanziari, la collaborazione o l’aggregazione con altre realtà è un fattore chiave. Quelli che realizzano in modo stabile collaborazioni con altri studi o realtà diverse per sviluppare business congiuntamente evidenziano una percentuale di redditività più alta (68%) rispetto alla media generale (58%). Ma è una pratica ancora poco diffusa: solo l’8% degli studi ha avviato collaborazioni formalizzate.

Più investimenti per fattura elettronica, sistemi di videochiamate, e-learning

Le professioni hanno destinato investimenti in ICT soprattutto per fattura elettronica (86%), sistemi per la gestione di videochiamate (75%), piattaforme di e-learning (48%), conservazione digitale a norma (42%) e reti VPN (36%). In merito alle intenzioni di investimento entro il 2023, gli avvocati privilegiano sito web (13%), pagina social dello Studio (9%) e conservazione digitale a norma (7%). I commercialisti puntano su conservazione digitale a norma (9%), software per il controllo di gestione, sito internet per lo Studio e gestione elettronica documentale (tutti al 6%), e i consulenti del lavoro, la conservazione digitale a norma (12%), il sito per lo Studio (7%), il software per la gestione della crisi d’impresa.