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Certificazioni ISO: Qualità, Ambiente e Sicurezza sul Lavoro

Nel mondo degli affari, le aziende cercano costantemente modi per dimostrare la loro dedizione alla qualità, all’ambiente e alla sicurezza sul lavoro. Un efficace modo per farlo è ottenere le certificazioni ISO, in particolare le ISO 9001, ISO 14001 e ISO 45001. Secondo gli esperti di Qualifica Group, queste certificazioni rappresentano un riconoscimento globale dell’impegno di un’azienda verso gli standard di gestione della qualità, dell’ambiente e della salute e sicurezza sul lavoro.

Miglioramento continuo della qualità

La ISO 9001 è un sistema di gestione della qualità ampiamente riconosciuto e utilizzato dalle aziende in tutto il mondo. Questa certificazione si concentra sull’implementazione di processi ben definiti e sulla gestione efficace della qualità dei prodotti o servizi offerti da un’azienda. Con la certificazione ISO 9001, le aziende devono adottare un approccio sistematico per soddisfare le esigenze dei clienti e migliorare costantemente i loro processi. Ciò include l’identificazione dei rischi e delle opportunità, la misurazione delle prestazioni e l’implementazione di azioni correttive. I benefici della ISO 9001 includono il miglioramento della soddisfazione del cliente, l’efficienza operativa e l’aumento della competitività dell’azienda sul mercato globale.

Impegno per l’ambiente

La ISO 14001 è una certificazione che si concentra sulla gestione ambientale delle aziende. Aiuta le organizzazioni a identificare, monitorare e controllare gli impatti ambientali delle loro attività, promuovendo un approccio responsabile verso l’ambiente. Le aziende certificate ISO 14001 devono sviluppare un sistema di gestione ambientale che comprende l’analisi degli impatti ambientali, il rispetto delle normative ambientali e l’impegno per il miglioramento continuo delle performance ambientali. I vantaggi dell’ISO 14001 includono la riduzione dell’impatto ambientale, la conformità normativa e il miglioramento dell’immagine aziendale.

Priorità alla salute e sicurezza sul lavoro

La ISO 45001 è una certificazione che si concentra sulla gestione della salute e sicurezza sul lavoro. Questo standard fornisce un quadro per identificare e gestire i rischi legati alla salute e sicurezza dei lavoratori, promuovendo un ambiente di lavoro sicuro e sano. Le aziende certificate ISO 45001 devono adottare un approccio basato sul rischio per identificare e mitigare i pericoli, fornire formazione ai dipendenti e stabilire procedure per la gestione delle emergenze. I vantaggi della ISO 45001 includono la prevenzione degli incidenti sul lavoro, la conformità legale e il coinvolgimento dei dipendenti nella gestione della salute e sicurezza.

Un investimento che ripaga

Le certificazioni ISO 9001, ISO 14001 e ISO 45001 sono importanti strumenti per le aziende che desiderano dimostrare il loro impegno per la qualità, l’ambiente e la salute e sicurezza sul lavoro. Queste certificazioni offrono una serie di benefici, tra cui il miglioramento della soddisfazione del cliente, la riduzione dell’impatto ambientale e la creazione di un ambiente di lavoro sicuro. Ottenere queste certificazioni richiede un impegno significativo da parte dell’azienda, ma i vantaggi a lungo termine superano gli sforzi iniziali. 

Pagamenti digitali: lievitano le transazioni con carte e bonifici

Favoriti dalla normativa che incentiva la tracciabilità, lievitano i pagamenti con carte di credito e bancomat, e più in generale, quelli in formato digitale, tra cui figurano anche i bonifici.
Strumenti come la fattura elettronica per tutti, l’obbligo del POS per i negozianti e la detraibilità fiscale consentita solo per le spese non in contanti, hanno infatti favorito un boom per i pagamenti digitali. In particolare, nel 2022, le operazioni con le carte di credito aziendali e personali hanno superato la soglia dei 100 miliardi di controvalore, attestandosi a quota 101 miliardi di euro, anche se il numero di carte attive è diminuito leggermente, collocandosi a 13,4 milioni di unità.
È quanto emerge dalle ultime statistiche della Banca d’Italia su moneta e pagamenti.

Più bancomat e bonifici

Cresce inoltre anche l’utilizzo delle carte di debito, ad esempio il bancomat, con un controvalore dei pagamenti lievitato fino a 224 miliardi di euro, in aumento del 21% rispetto ai 184 miliardi del 2021 (+21%). Quanto al controvalore dei bonifici online, anch’esso è cresciuto parallelamente, attestandosi a poco più di 9.000 miliardi, in linea con il trend degli altri paesi europei.

Cosa ha favorito la diffusione del digitale?

Di fatto, molti fattori che hanno favorito la diffusione del digitale nei pagamenti sono di carattere fiscale e normativo, e sono stati introdotti dal Governo Draghi per l’attuazione degli obiettivi del PNRR, in linea con la scelta di campo effettuata dalla UE per favorire la diffusione del digitale.
Fra questi rientrano la fattura elettronica per imprese e professionisti, che punta anche a colpire l’evasione fiscale e l’illegalità, ma anche il POS obbligatorio e la deducibilità solo delle spese ‘tracciate’. C’è poi da considerare la maggiore diffusione di piattaforme come Apple Pay, ormai supportate da tutti gli istituti di credito italiani, e che permettono di effettuare pagamenti tramite NFC da smartphone e smartwatch in modo semplice e sicuro.

Sempre più online anche le donazioni

Anche per le donazioni cresce l’uso del digitale, e anche in questo caso è favorito dalla normativa fiscale, che consente la deducibilità solo per le donazioni tracciabili. A certificare l’accelerazione della digitalizzazione nelle donazioni un recente studio condotto da PayPal e Rete del Dono, commissionato a Bva Doxa, mostra come già nel 2021 era stato registrato un forte avvicinamento tra le modalità di pagamento nelle donazioni, il 37% in contante e il 35% tramite strumenti digitali, mentre il 2022 è stato l’anno del sorpasso, con un 38% che ha affermato di preferire il contante e un 42% che ha scelto il pagamento digitale.

Trasformazione digitale, le imprese del settore sono 150mila  

Il numero di imprese che si avviano alla trasformazione digitale sta aumentando, e di conseguenza anche l’offerta dei servizi indispensabili per intraprendere questo percorso. Secondo una ricerca condotta dal Team Data Scientist di InfoCamere, basata sui dati di Movimprese, le aziende italiane che offrono servizi per lo sviluppo di attività digitali sono cresciute del 37% negli ultimi dieci anni, a differenza del settore dei servizi nel suo complesso, che è cresciuto solo del 13,5%. Questo incremento è stato trainato principalmente dalle regioni meridionali.
Lo studio ha focalizzato l’attenzione sui settori che possono offrire strumenti e tecnologie per supportare la digitalizzazione delle imprese, come i servizi di e-commerce, la connessione internet, l’elaborazione dei dati e la produzione di software. Alla fine del 2022, il numero di imprese che operavano in questo settore era di 146.583, di varie dimensioni e nature giuridiche. Una crescita importante rispetto al 2012, quando erano invece 104.508.

In Lombardia il maggior numero di “specialisti”

Alla fine del decennio, le regioni con il maggior numero di queste imprese sono state la Lombardia (30.856), il Lazio (18.556) e la Campania (14.671). Tuttavia, nel periodo considerato, è stata la Campania a registrare la crescita più significativa in termini relativi (+68,9%). Dopo la Campania, le regioni più dinamiche sono state altre tre regioni del Mezzogiorno: la Puglia (+49,2%), l’Abruzzo (+46,2%) e la Sicilia (+42,6%), testimoniando l’attrattiva dei servizi legati all’economia digitale per le imprese del Sud, che sono aumentate complessivamente del 50% nel periodo.

L’e-commerce il comparto più vivace

In termini assoluti, le imprese che operano nei servizi di e-commerce sono state quelle che hanno registrato la maggiore crescita, quasi triplicando rispetto al 2012 (da 10.383 a 37.008 unità). Seguono le aziende specializzate nella produzione di software, che sono le più numerose assolute, raggiungendo quota 55.178 nel settembre 2022 rispetto alle 43.996 all’inizio del decennio (+25,4% nel periodo). Le imprese nel settore dell’elaborazione dei dati sono cresciute meno rapidamente (+9% di aumento cumulato nel decennio), portando il numero da poco più di 41.985 a 45.774 unità. L’unico settore che ha registrato una diminuzione delle imprese è quello dei servizi internet, che è diminuito del 21,3% nel periodo considerato.

Noleggio auto: 148.827 immatricolazioni nel primo trimestre 2023 

Nel primo trimestre del 2023 il noleggio a lungo e a breve termine insieme hanno immatricolato 148.827 Passenger Cars e Light Commercial Vehicles, il 31,5% dell’intero mercato. Una percentuale dunque molto vicina a una quota di un veicolo su 3. Secondo l’analisi di Dataforce, il noleggio si conferma il canale di distribuzione che traina il mercato italiano dell’auto. In particolare, i primi tre mesi del 2023 registrano un record per il noleggio auto a lungo termine, che con 108.392 immatricolazioni segna +72,18% rispetto al 2022 e supera il record storico delle 94.741 immatricolazioni nel 2018. Il noleggio a breve termine, invece, seppur in forte ripresa con il +138% di immatricolazioni, è ancora lontano dai numeri degli anni pre-Covid.

Noleggio a lungo termine: le performance delle compagnie

Se l’anno scorso si parlava di crisi dell’auto oggi si può dire che per il noleggio auto a lungo termine il primo trimestre 2023 mostri segnali fortemente incoraggianti. Il trend delle immatricolazioni segna +65% a gennaio, +58% a febbraio e +89,70% a marzo. Salgono tutti i segmenti, ma soprattutto il Captive, quello delle case produttrici, che avvicina sempre più al segmento Top. A segnare le performance più interessanti sono due compagnie del segmento Captive della galassia FCA-Stellantis: Leasys e Drivalia. Leasys ha segnato un +128,78% diventando il player numero 1 in Italia davanti a Arval e Drivalia. Anche la giapponese KINTO del gruppo Toyota raddoppia la flotta, confermando l’interesse verso lo Stivale.

Noleggio a breve termine a quota 21.344 veicoli, ma è un quarto del pre-Covid

A un primo sguardo si direbbe che il primo trimestre 2023 del noleggio auto a breve termine sia andato molto bene, segnando +138,13% immatricolazioni. Ma il settore è davvero ‘fuori dal tunnel’? Nei primi tre mesi del 2017 il noleggio a breve termine immatricolava 69.874 veicoli, 78.109 nel 2018 e 84.075 nel 2019. Oggi, nel 2023, raggiunge la quota di 21.344 veicoli, appena un quarto di quanto faceva prima del Covid.

Crescono tutti i segmenti, in particolare il Medium

Se il trend sarà confermato vedremo un 2023 positivo per il noleggio a breve termine, anche se lontano dagli standard a cui ci aveva abituato. In ogni caso, crescono tutti i segmenti, e in particolare il Medium, rappresentato da noleggiatori di medie dimensioni, che cresce di 6 volte. I due top player, Avis e Hertz, triplicano le immatricolazioni, e Europcar sorprende tutti decuplicando le immatricolazioni, da 206 a 2278. Ma come detto in precedenza, i dati del 2022 erano incredibilmente bassi.

Salario Minimo: nel 2023 si alza la soglia?

In Italia il salario minimo è stato fissato a 9 euro l’ora per i lavoratori del settore privato. La soglia minima è stata fissata per garantire che i lavoratori abbiano una retribuzione dignitosa e adeguata al loro impegno e al loro lavoro, soprattutto badanti e colf. Secondo le linee guida della UE il salario minimo deve infatti garantire uno stile di vita equo e dignitoso. Tuttavia, non tutti i lavoratori hanno diritto al salario minimo, poiché alcune categorie di lavoratori, come i giovani in età di apprendistato, sono escluse da questa protezione. Ma cosa cambia nel 2023? E le novità come potrebbero influire sul mondo del lavoro in Italia e in Europa?

Un impatto sul mondo del lavoro

Nel 2023 alcune novità riguardanti il salario minimo potrebbero avere un impatto significativo sul mondo del lavoro. In primo luogo, la soglia minima in Italia potrebbe essere aumentata per garantire che i lavoratori abbiano una retribuzione ancora più adeguata al loro impegno e al loro lavoro. Inoltre, potrebbero essere introdotte nuove regolamentazioni per garantire che tutti i lavoratori, compresi quelli delle categorie protette, abbiano diritto al salario minimo. Novità che avrebbero un impatto significativo sulle aziende, soprattutto sulle piccole e medie imprese, che potrebbero trovarsi in difficoltà nel sostenere questi aumenti.

La garanzia di una retribuzione equa e dignitosa

In ogni caso, nel nostro Paese, attraverso i Contratti Collettivi Nazionali, già da tempo si è nel pieno rispetto di queste normative. Ad esempio, per i lavoratori del settore edile il salario minimo contrattuale è di 14 euro l’ora. Questo significa che un lavoratore del settore edile che lavora 40 ore a settimana riceve un salario minimo netto di 1.680 euro al mese per 13 mensilità. Anche a livello europeo il salario minimo è stato recentemente regolamentato. La nuova normativa prevede che tutti i lavoratori della UE abbiano diritto a un salario minimo adeguato, e che le aziende siano obbligate a rispettare queste norme. Questa nuova regolamentazione ha l’obiettivo di garantire che i lavoratori europei abbiano una retribuzione equa e dignitosa, indipendentemente dal paese in cui lavorano.

Obiettivo: ridurre la povertà e migliorare la qualità della vita

Il nuovo salario minimo europeo ha l’obiettivo di ridurre la povertà tra i lavoratori e migliorare la qualità della vita. Tuttavia, alcuni esperti temono che l’aumento del salario minimo possa causare un aumento dei prezzi, poiché le aziende potrebbero dover aumentare i listini per coprire i costi del salario minimo. Inoltre, c’è il rischio che alcune aziende decidano di ridurre il numero di dipendenti, o di delocalizzare la produzione in paesi con salari più bassi. Per questo motivo, le autorità tendono a intavolare trattative con sindacati e rappresentanti delle aziende, proprio per cercare di arrivare a un accordo che sia favorevole per aziende e lavoratori.

Commercio al dettaglio: nel 2022 crescono le vendite su base annua 

A dicembre 2022 su base annua l’Istat segnala un aumento del 3,4% in valore per le vendite al dettaglio, che però registrano un calo in volume pari al -4,4%. Un analogo andamento caratterizza sia le vendite dei beni alimentari (+5,8% in valore e -6,6% in volume) sia le vendite dei beni non alimentari, che segnano rispettivamente +1,7% in valore e -3,1% in volume. A dicembre 2022 l’Istat stima per le vendite al dettaglio un calo su base mensile del -0,2% in valore e del -0,7% in volume. In particolare, le vendite dei beni alimentari registrano un lieve aumento in valore (+0,1%) ma diminuiscono in volume (-0,6%), mentre quelle dei beni non alimentari calano sia in valore sia in volume, rispettivamente del -0,4% e del -0,8%.

Quarto trimestre 2022: crescite in valore, ma cali in volume

Nel quarto trimestre 2022, in termini congiunturali, le vendite al dettaglio crescono in valore del +0,4% e calano in volume del -1,8%. Le vendite dei beni alimentari sono in aumento in valore (+0,7%) e diminuiscono in volume (-2,6%) così come quelle dei beni non alimentari (+0,2% in valore e -1,2% in volume).

Beni non alimentari, variazioni tendenziali positive a eccezione della tecnologia

Per quanto riguarda i beni non alimentari, riferisce Italpress, si registrano variazioni tendenziali positive per tutti i gruppi di prodotti, a eccezione di Dotazioni per l’informatica, telecomunicazione e telefonia (-1,8%) e Prodotti farmaceutici (-2,7%). L’aumento maggiore riguarda i prodotti di profumeria e cura della persona (+8,4%). Inoltre, rispetto a dicembre 2021, il valore delle vendite al dettaglio è in crescita, seppure in maniera differenziata, per tutte le forme di vendita. La grande distribuzione segna un +6,5%, le imprese operanti su piccole superfici un +0,8%, le vendite al di fuori dei negozi un +1,2%, e il commercio elettronico registra un +0,3%.

L’aumento dei prodotti non alimentari non compensa il calo dei beni alimentari

“Nel complesso del 2022 le vendite al dettaglio in valore crescono rispetto all’anno precedente del +4,6% in entrambi i settori merceologici, mentre i volumi diminuiscono del -0,8% a causa del calo dei beni alimentari (-4,2%), non compensato dall’aumento dei prodotti non alimentari (+1,9%) – commenta l’Istat -. Tutti i trimestri dello scorso anno hanno visto incrementi congiunturali nel valore complessivo delle vendite, associati a una diminuzione dei relativi volumi. Nella media del 2022 la crescita in valore delle vendite ha caratterizzato tutte le forme distributive, seppure in misura molto differenziata, con gli aumenti maggiori registrati per la grande distribuzione specializzata e per i discount”.

In netta ripresa il credito al consumo nel 2022

Dopo i cali fisiologici legati al periodo della pandemia, sono in netta ripresa le richieste di credito al consumo. Anche se sono in crescita le domande, però, l’importo medio segna una lieve flessione, confermando la prudenza delle famiglie italiane. In base ai dati diffusi da EURISC, il Sistema di Informazioni Creditizie gestito da CRIF, si scopre che il 2022 ha visto una ripresa a doppia cifra del credito al consumo con un incremento complessivo delle richieste del +18,9% rispetto al 2021. Nell’anno passato si è registrata una crescita del 22,9% per le richieste di finanziamento personali, e del +16,7% per i prestiti finalizzati all’acquisto di beni e servizi.
“Lo scenario continua a essere dominato dalle tensioni geopolitiche, dall’aumento dei tassi d’interesse e dalla prospettiva di un rallentamento della crescita economica, le cui ricadute peseranno sulle condizioni finanziarie delle famiglie” commenta Simone Capecchi, Executive Director di CRIF. “Rispetto al primo semestre del 2022, le prospettive sull’economia e il mercato del credito appaiono in affanno a causa degli effetti delle tensioni generate dal conflitto in Ucraina e dall’inflazione. Alla luce di tale contesto, nei prossimi mesi la domanda di prestiti potrà subire una flessione a causa del rallentamento dei consumi, in particolare su quelli durevoli”. 

Italiani prudenti: richiedono importi più ridotti

Per il terzo anno consecutivo l’importo medio dei finanziamenti richiesti segna una flessione del 3,9% e un valore di 8.106 euro (contro gli 8.434 euro del 2021 e i 8.895 euro del 2020). La dinamica dell’assottigliarsi dell’importo richiesto coinvolge sia i prestiti personali con un valore pari a 12.223 euro (-1,4% rispetto al 2021) sia i prestiti finalizzati che si fermano a 5.717 euro (-8,5% vs 2021).
Se entriamo nel dettaglio della distribuzione dei prestiti per fascia di importo, il dato cumulato mostra come oltre un italiano su due richiede importi inferiori ai 5.000 euro (57,3% del totale), seguiti dagli scaglioni appena superiori: 10.000-20.000 euro (16,4%) e 5.000-10.000 euro (15,1%). La domanda, seppur così frazionata in importi contenuti, viene comunque dilazionata su un arco temporale superiore ai 5 anni per il 22,7% degli italiani, al fine di pesare il meno possibile sul bilancio familiare.

Prestiti finalizzati e prestiti personali, in cosa differiscono?

La dinamica prudente delle famiglie italiane si rispecchia anche nello spaccato delle due forme tecniche prese in esame: il 75,1% delle richieste di prestiti finalizzati ha una estinzione del debito non superiore ai 3 anni; mentre i prestiti personali, che spesso rappresentano un impegno particolarmente gravoso per le famiglie, tendono a concentrarsi nella fascia di durata superiore al lustro, 43% del totale.
Osservando, infine, la distribuzione delle richieste di prestiti (aggregato personali e finalizzati) in relazione all’età del richiedente, il Barometro CRIF evidenzia come nel 2022 la fascia compresa tra i 35 e i 54 anni sia stata quella maggioritaria, con una quota pari al 45,2% del totale.

Nel 2023 gli ultraricchi puntano sul mercato immobiliare 

Nonostante il periodo di instabilità e incertezza, l’ultimo Wealth Report pubblicato da Knight Frank attesta come nel 2022 quattro su dieci tra gli ‘ultra-high-net-worth individuals’ (UHNWI), gli individui con un patrimonio netto elevato, abbiano registrato una crescita della propria ricchezza. Secondo i dati raccolti dall’Attitude Survey, condotto lo scorso novembre su oltre 500 investitori tra banchieri, advisor e family officer (gestori di patrimoni familiari), in questo scenario il real estate si riconferma la migliore opportunità di investimento per il 46% degli intervistati.
“L’immobiliare rappresenta uno dei migliori settori di investimento, come scudo contro l’inflazione o per diversificare il proprio portfolio – commenta Flora Harley, Partner del Dipartimento di Ricerca Residenziale di Knight Frank -. Un intervistato su dieci è alla ricerca di soluzioni sicure, controllabili e dal grande valore aggiunto, e le trova nel real estate”.

I compratori più attivi si trovano in Medio Oriente

A livello globale, la media delle case di proprietà degli UHNWI è di 4,2 e addirittura di 5 in Asia, trend che dimostra il forte interesse in generale nei confronti degli immobili. I compratori più attivi, inoltre, si trovano in Medio Oriente. Si prevede però che gli alti tassi di interesse comporteranno un rallentamento della domanda nel mercato immobiliare residenziale per il 2023. Il 15% degli UHNWI sta cercando una casa da acquistare contro il 20% dell’anno precedente. Secondo il sondaggio, Stati Uniti, Regno Unito e Spagna sono le tre migliori location per acquistare una casa. Australia e Francia completano la classifica delle top 5.

Real estate: una vera e propria opportunità per gli UHNWI

Il real estate rappresenta una vera e propria opportunità per gli UHNWI. A livello globale, un intervistato su cinque sta pianificando investimenti diretti nel settore immobiliare per il 2023, mentre il 13% è alla ricerca di opportunità indirette. Il dato è abbastanza in linea con il 20% dello scorso anno, riconfermando l’attrattiva del mercato nonostante l’incertezza economica. Salute, logistica/industria, uffici, affitti privati, e hotel/svago sono i settori più appealing nel 2023 per circa un terzo degli intervistati.

Una finestra per il capitale privato

A fronte di un investimento immobiliare, i buyer prendono sempre più in esame fattori come fonti energetiche (57%), opportunità di ristrutturazione (33%) e materiali utilizzati, in particolare per ridurre l’impronta carbonica (30%).
“Con il 68% degli UHNWI che si aspetta una crescita della ricchezza nel 2023, prevediamo cambiamenti nelle strategie di diversificazione del portafoglio, con il settore del real estate che gioca un ruolo sempre più rilevante negli ultimi anni – spiega Liam Bailey, Global Head del Dipartimento di Ricerca di Knight Frank -. La pressione al ribasso sui valori degli immobili, dovuta a tassi di interesse più elevati, ha creato una finestra per il capitale privato, in particolare perché stiamo entrando in una nuova fase di mercato con minimi storici in termini di stock di proprietà di fascia alta nei mercati residenziali e commerciali”.

Mutui variabili: in un anno le rate aumentano del 36%

Nel corso del 2022 le rate di un mutuo medio a tasso variabile sono aumentate del 36%, passando da 456 euro a 619 euro al mese. Lo ha scoperto Facile.it, che per la sua analisi ha preso in esame un finanziamento a tasso variabile sottoscritto a gennaio 2022 da 126.000 euro con la durata di 25 anni.
Secondo Facile.it, a distanza di soli 12 mesi il mutuatario oggi paga una rata di oltre 160 euro in più rispetto a quella di partenza, con un tasso di interesse (TAN) passato dallo 0,67% al 3,33%.

Euribor a 3 mesi: entro giugno 2023 crescerà ancora?

La corsa dei tassi variabili non sembra essere terminata. Anzi, la BCE ha già annunciato che nel 2023 continuerà ad aumentare gli indici, con inevitabili conseguenze anche sulle rate dei mutuatari.
Se si guarda alle aspettative di mercato (Futures sugli Euribor), gli esperti prevedono che entro giugno 2023 l’Euribor a 3 mesi cresca ancora di quasi 1 punto e mezzo. Nel caso queste previsioni si avvereranno la rata mensile del mutuo preso in esame arriverebbe addirittura a 718 euro. Ovvero, oltre 260 euro in più rispetto a quella sottoscritta a gennaio 2022.

Aumenti significativi anche per il tasso fisso

Anche sul fronte dei tassi fissi nel 2022 sono stati rilevati aumenti significativi. Se per chi ha un mutuo in corso non è cambiato nulla, chi sceglie oggi di sottoscrivere questo tipo di finanziamento trova sul mercato indici più alti rispetto al passato. Guardando alle migliori offerte disponibili online, emerge che oggi per un mutuo fisso (126.000 euro in 25 anni per un immobile da 180.000 euro) i tassi di interesse (TAN) partono da 3,26%, con una rata iniziale di circa 614 euro. Dodici mesi fa, invece, le migliori offerte partivano da 1,05%, con una rata di circa 477 euro. Dati alla mano, quindi, questo finanziamento oggi costa circa 137 euro in più al mese. Vale a dire oltre 40.000 euro in più di interessi se si considera l’intera durata del prestito.

Si riduce la distanza tra tasso fisso e variabile

“Il 2022 è stato caratterizzato da un aumento generalizzato degli indici dei mutui, un trend che potrebbe continuare anche nel 2023, soprattutto per quanto riguarda i tassi variabili – spiegano gli esperti di Facile.it -. In un contesto di grande cambiamento e dinamicità come quello attuale, dove la distanza tra tasso fisso e variabile si è ridotta, non sempre è semplice orientarsi: basti pensare, ad esempio, che oggi ci sono sul mercato mutui variabili con indici più alti rispetto a quelli fissi. Il consiglio, quindi, è di confrontare le offerte di più banche, e affidarsi a consulenti esperti per individuare il prodotto più adatto”.

Mercato del lavoro, 5 milioni di persone da inserire 

Ogni 100 disoccupati in meno 24 posti vacanti in più. Tra disoccupati e scoraggiati sono quasi 5 milioni le persone da inserire nel mercato del lavoro italiano, che diventa sempre meno efficiente per un problema di matching tra domanda e offerta di lavoro in continuo peggioramento. Il disallineamento crea un apparente paradosso: quando aumenta la disoccupazione, non diminuisce la difficoltà a reperire le figure professionali richieste dalle imprese. Lo rivela la nuova indagine di Randstad Research, che ha analizzato il mancato incontro tra domanda e offerta nei diversi settori e territori, identificando per la prima volta gli spostamenti della ‘curva di Beveridge’, lo strumento che permette di analizzare l’efficienza dei diversi mercati del lavoro misurando la variazione percentuale del tasso dei posti vacanti al variare della disoccupazione.
Passato il periodo Covid (con il blocco dei licenziamenti), la ripresa del lavoro 2022 ne sconta l’eredità: mentre diminuisce il tasso di disoccupazione (che resta comunque alto), continua a crescere il numero di offerte di lavoro scoperte. Oggi, ogni 100 disoccupati in meno si contano mediamente 24 posti vacanti in più.

La disoccupazione di lunga durata

Una delle motivazioni che hanno portato la curva Di Beveridge italiana a peggiorare nel periodo 2005-2009 e 2015-2019, evidenzia Randstad Research, è la disoccupazione di lunga durata, che causa una de-professionalizzazione dei profili. Seppure allineata alla media Ocse nella classifica di disoccupazione tra 6 mesi e un anno (15% nel 2020), l’Italia è al primo posto per disoccupati da più di 6 mesi, quasi il 70% del totale delle persone senza lavoro, più del doppio della media (33%). Alla fine del 2021, il 49% dei disoccupati italiani non lavorava da meno di un anno, il restante 51% da più di 12 mesi. Il 20,4% dei disoccupati lo è da più di 3 anni.
Ma sono forti le differenze regionali: i disoccupati oltre i 30 mesi sono concentrati in alcune regioni del Sud. Un modello econometrico elaborato da Randstad Research per analizzare la capacità di assorbire gli shock della disoccupazione e il rapporto tra posti vacanti e disoccupazione regione per regione evidenzia il divario tra Mezzogiorno e le altre regioni. Trentino-Alto Adige, Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia mostrano la maggiore efficienza nel rapporto domanda-offerta di lavoro, considerato la media del tasso di disoccupazione e del tasso dei posti vacanti nel periodo 2015-2019 (è più efficiente il mercato del lavoro che riesce a combinare un livello più basso di disoccupazione con un livello contenuto di posti vacanti).
È in grave ritardo, invece, il Mezzogiorno, con Calabria e Sicilia in coda alla classifica del rapporto disoccupazione/posti vacanti. Più nel dettaglio, la classifica di efficienza dei mercati del lavoro regionali evidenzia un gruppo di testa, composto da Trentino-Alto Adige, Veneto, Emilia-Romagna, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Valle d’Aosta e Toscana, un gruppo intermedio con Piemonte, Marche, Liguria, Umbria, Lazio e Abruzzo, e poi le regioni più in difficoltà, Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia, Campania, Sicilia e Calabria.

Cosa accade nei vari settori

Ci sono anche profonde differenze tra i settori. Confrontando il rapporto tra posti vacanti e disoccupazione, si evidenziano in particolare due casi, quello dell’informatica, dove troviamo scarsissima disoccupazione ma grande difficoltà di reperimento, e quello della ristorazione, dove insieme a una difficoltà di reperimento si associata elevata disoccupazione. Anche i settori possono dividersi in 3 gruppi sulla base dell’efficienza del relativo mercato, in base al rapporto tra tasso di disoccupazione e posti vacanti.
I più efficienti sono cave e miniere, fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata, attività finanziarie, acqua e rifiuti, servizi di informazione e comunicazione, attività artistiche, sportive di intrattenimento e divertimento.
Poi vengono gli altri servizi, trasporto, attività professionali scientifiche e tecniche, sanità e assistenza sociale, noleggio agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese.
I comparti meno efficienti sono industrie manifatturiere costruzioni, attività dei servizi di alloggio e ristorazione, commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazione di autoveicoli e motocicli.